Dante Divines the Dead (A Preface to Inferno)

I.

Even pasted into poems, then posted for Posterity,

thoughts are communiqués from the Dead,

our buried selves, so plush in wisdom—

vested in all secrets and versed in all Science—

they treasure their public silence,

and grant us only clandestine signs.

How else should I hear Latin, deathbed whispers,

snatches of errant ejaculations,

or heresies conjured in sighs?

Even embalmed corpses, decorous,

prove urgently plangent,

intense icons,

a poet attends,

if he’ll not be Arctic-mute himself,

a grave all snow-white,

blank of sense,

or only a black ink blot—

a sot.

(Love does survive the grave—

because it cannot live there.

Sorrows weight down cadavers.)

I go into a cemetery—concentration

camp of confessionals—

and fathom, for instance,

a diabolical holiness backing a slave seller,

some pallid barker marketing

Ethiope brawn & breast,

and notching the nigrescent sexes.

I do deplore this dead one’s once-vile

Venery and Violence,

yet his personal evil is ended.

His thought wrought his Fate.

(Memory is Judgment.)

I prefer the moon—that pleasant stone—

that piece of marble that’s escaped:

Moonlight out-creams cream.

(Even a modest graveyard

can house

blissful, deathless whiteness.)

I inspect the tombs,

inscribed or plain alabaster,

the moneyed craftsmanship,

and, despite odd ornaments,

I say all the monuments are petty marbles—

blank periods.

But in sifting their epitaphs,

their epithetic immortality

amid Oblivion,

their evaporating vespers,

I register rumours of Truth.

With funereal finesse,

I down a glass of moonlight in Hell,

uncover even the stupidity of judges—

each skeletal tribune—

in their decrepit Eternity,

and should want to mix my tears with my ink.

In these fields of burial,

in each adroit cell,

I discover the plenitude of Story,

not the extinction of Song.

Consider:

The Resurrection itself is

an explosion of earth.

(Christ was liberated at Golgotha,

yes;

but dwells lonesome til Judgment Day.)

Twisted shadows—reflex cherub

or reprobate saint—

emanate from geranium-scented ground.

II.

I know that History disinters all:

worms diddle a corpse; roots riddle a coffin.

History is never disinterested.

Even a glittering king wears a blackberry crown;

or a harsh, windy hero slumps,

drilled by a spear.

After flogging a lewd wench

or a curd-faced crone,

Bible-puffed-up blowhards

go under scarcely trod graveyard soil.

And obsessions for gold fail too.

Or bashful gal meets gallant lad,

and he plies the ivory mound at her thigh,

launches his trembling lance—

(his throbbing shaft

thrilling her sobbing shaft)—

takes his itty bitty lil bit of titty,

savours lust that is smelly fish,

until both, deceased, become

cold, petrified shadows—

like the statuesque dead of Pompeii.

(Lovers breathe in whirlwinds

and breed in fog—

play incandescent, transcendent spectres—

spelling out the hottest scribing

of their fucks, sultrily sweaty,

yet coldly impervious to morals.)

Too, demonic, smutty priests

leave their foul harems—

their nests of bastards—

and slump back in caskets;

each displaying a deadpan, charming expression,

mimicking waxwork saints.

Criminals killed in capital letters,

plus soft-spoken, low-key tyrants,

plus orators with ground-down sentences

and well-ground teeth,

plus celestial beauties—bestial, erotic—

nuns with ratty habits—

all prove unacceptably septic,

oozing macabre filth.

My visions?

Cadenced eavesdropping.

Nowhere is as sad as a cemetery.

Words weigh like lead dust.

Nothing is more chastening than Decay

for getting at truth.

Each of us is a morsel of dirt

fit for the grave’s mouth:

Vain are our intimate gymnastics—

rapturous fury—

exertions for procreation.

Each abrupt baby—

after hysteria of birth—

lives on smuggled breath:

All end in suffocating voids

where monks and monsters jostle,

but where I can lurk and listen, laugh and sob.

As the dead become translucent,

so I become lucid….

III.

In my white-moon paradise

of chilling light,

give eye to my speech.

Out of the illustrious grave,

the great rent in the earth,

I hear humiliated whispers—

the boisterous joking of lascivious old age,

inebriate howls,

sonorous, reverential prayers,

and I deliver them here—

in a slightly bony voice.

Yet, I don’t know if I can be

an angel’s poet.

Outside my mother’s house,

no one loves me.

(Some condemn my songs as off-key,

bad-luck chirping.)

The ways of gods and poets

seem imbecilic, if not bizarre.

(Life metes out sugar, but outweighed

by the salt of flooding tears.)

Is my revelation Light,

or is it a light revelation?

Hush! I hear the first regret

and the last temptation.

Under tapering, cypress shadows,

the Dead congress in the grass.

Always we cognoscenti are late.

Ivy survives us wondrously—

as if unkillable as ink.

[Ravenna (Italy) 19 septembre mmxii]

Dante evoca i morti (Una prefazione all’Inferno)

I.

Pur se incollati dentro poesie, poi spediti alla Posterità,

i pensieri sono bollettini dai Morti,

i nostri io sepolti, così sfarzosi in saggezza—

investiti d’ogni segreto ed esperti d’ogni Scienza—

custodi d’un pubblico silenzio,

per noi solo dispensatori di segni clandestini.

In quale altro modo potrei udire i sussurri in latino

fatti in punto di morte, frammenti di sleali eiaculazioni,

o le eresie evocate tra sospiri?

Persino decorosi corpi imbalsamati

si mostrano quali icone

intense e risonanti,

che un poeta accudirà,

se non sarà egli stesso d’un gelido, artico mutismo,

una tomba tutta bianconeve,

vacua di senso,

o solo macchia d’inchiostro nero—

un ubriacone.

L’Amore sopravvive alla tomba—

perché là non può viverci.

I Dolori appesantiscono i cadaveri.)

Entro in un cimitero—un campo

di concentramento di confessionali—

e scandaglio, ad esempio, una santità diabolica

che sostiene un venditore di schiavi,

un qualche imbonitore che mercanteggia

muscoli e seni dall’Etiopia,

e fa le tacche a sessi nigrescenti.

Deploro, di questo morto, la Lussuria e la Violenza

d’una viltà ormai sorpassata,

pur se è concluso quel male personale.

Il suo pensiero ha tessuto il suo Destino.

(La Memoria è Giudizio.)

Preferisco la luna —quell’amabile pietra—

quel pezzo di marmo sfuggito:

panna dal chiarore lunare più bianco della panna.

(Persino un cimitero modesto

può ospitare

un biancore imperituro e beato.)

Ispeziono le tombe

e le loro iscrizioni o quelle in semplice alabastro,

artigianato danaroso,

e, a dispetto delle decorazioni mirabili,

affermo che tutti i monumenti sono marmi trascurabili—

periodi vuoti.

Eppure, a vagliare quegli epitaffi,

quell’immortalità dell’epiteto

in mezzo all’Oblio,

quei vespri in evaporazione,

registro dicerie di Verità.

Con eleganza funerea,

mi scolo un bicchiere di chiaro di luna all’Inferno,

svelo persino la stupidità dei giudici—

ogni tribuno scheletrico—

nella decrepita Eternità,

quasi a dover miscelare lacrime a inchiostro.

In questi campi della sepoltura,

in ciascuna abile cella,

scopro la pienezza della Storia,

non l’estinzione della Canzone.

Badate:

la Resurrezione stessa è

terra in esplosione.

(Cristo fu liberato al Golgota,

sì;

ma abita solo fino al Giorno del Giudizio.)

Ombre contorte—riflesso d’un cherubino

o d’un reprobo santo—esalano

da un terreno ch’ha profumo di geranio.

II.

So che la Storia riesuma tutti:

i vermi gingillano un cadavere; le radici crivellano una bara.

La Storia non è mai disinteressata.

Persino un re risplendente indossa una corona di more;

o un ruvido eroe ventoso sprofonda,

trapassato da una lancia.

Dopo aver frustato una fanciulla lasciva,

o una megera dal viso grumoso,

quei fanfaroni rigonfi di Bibbia

scendono giù sopra un terreno a malapena pestato.

E le ossessioni per l’oro vengono anch’esse a mancare.

O una ragazza schiva incontra un giovane galante,

e quello assedia quel monticello d’avorio alla sua coscia,

getta la sua lancia tremante—

(un’asta palpitante

che eccita un vulva singhiozzante) —

prende quel pezzetto minuscolo d’un capezzolo,

e ne gusta una lussuria ch’ha sapore di pesce,

finché entrambi, deceduti, diventano

freddi, ombre pietrificate—

come i morti statuari di Pompei.

(Gli amanti respirano tra mulinelli di vento

e si nutrono tra nebbie—

recitano come spettri incandescenti, trascendenti—

mettono in chiaro le scritture

di quelle scopate, focosamente sudati,

eppure freddamente impervi alla morale.)

E pure, sudici preti demoniaci

abbandonano i loro harem schifosi—

i loro nidi di bastardi—

e stramazzano dentro bare; ciascuno a mostrare

un’espressione deliziosamente inespressiva

motteggiando santi di cera.

Criminali ammazzati a lettere maiuscole,

più i tiranni

più gli oratori con quelle frasi terra terra

e quei denti ormai consunti,

più le bellezze celestiali—bestiali, erotiche—

monache con abitudini irascibili—

tutti si dimostrano infetti in modo inaccettabile,

e stillano macabra lordura.

Visioni mie?

Una intercettazione cadenzata.

Nessun altro posto è triste quanto un cimitero.

Le parole pesano quanto polvere di piombo.

Nulla redarguisce più della Putredine

quando si vuole arrivare alla verità.

Oguno di noi è boccone di sporcizia

giusto per la bocca tombale:

Vane le nostre intime ginnastiche—

furia appassionata—

fatiche per la procreazione.

Ogni bimbo subitaneo—

dopo l’isteria della nascita—

vive d’un respiro contrabbandato:

Tutto finisce dentro vacuità soffocanti

dove monaci e mostri si spintonano

ma dove posso appostarmi e ascoltare, ridere e singhiozzare.

Mentre i morti diventano traslucidi,

e io divento lucido…

III.

Nel mio bianco paradiso lunare

dalla gelida luce,

dò uno sguardo al mio discorso.

Da quella tomba illustre,

squarcio nel suolo,

odo sussurri umiliati—

scherzi chiassosi della vecchiaia lasciva,

urla inebriate,

preghiere sonore e reverenziali,

e le congedo qui—

con voce leggermente affilata.

Eppure, non so se posso essere

il poeta d’un angelo.

Fuori dalla casa di mia madre

nessuno mi ama.

(Qualcuno biasima le mie canzoni stonate,

cinguettio della mala sorte.)

Le vie di dèi e poeti

sembrano imbecilli, se non bizzarre.

(La vita infligge zucchero, ma superato

dal sale di lacrime inondanti.)

È la Luce la mia rivelazione,

o una rivelazione di luce?

Zitti! Odo il primo rimpianto

e l’ultima tentazione.

Sotto ombre rastremate di cipresso

i Morti si radunano in un prato.

Noi, i cognoscenti, arriviamo tardi.

L’edera spendidamente ci sopravvive—

impossibile da assassinare, come inchiostro.